Negli ultimi giorni circolano parole come “armistizio”, “pace”, “accordo”: al prezzo di quante vite si osa parlare di una pace così fragile e falsa? Ci sono troppe voci che hanno ancora da ribattere nonostante siano state mutate per sempre dal silenzio della morte. Ci sono voci che non gridano, ma restano, che si insinuano nei silenzi della storia, nei muri crepati delle case distrutte, nei volti dei bambini che imparano a sorridere anche dove la terra brucia. Tra queste voci, quella di Mai Masri è limpida e ferma, come una mano che regge la cinepresa non per spettacolo, ma per testimonianza.

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Mai Masri nasce ad Amman nel 1959, cresce tra Palestina, Libano e Stati Uniti. Sin dall’inizio della sua carriera fa del cinema un atto di resistenza. Nel suo sguardo si incontrano l’intimità dell’infanzia rubata e la potenza della memoria. Con questo linguaggio la sua arte è un ponte tra la perdita e la speranza, tra la prigione e la libertà, tra l’immagine e la vita che essa cerca disperatamente di trattenere.
Masri continua a puntare il suo occhio dove il mondo preferisce distogliere lo sguardo; si sa, d’altro canto, che occhio non vede, cuore non duole. Ancora oggi, la Palestina viene ancora etichettata come una situazione geopolitica troppo delicata e per cui è meglio non guardare e far finta di niente. Ci sono diversi documentari girati da Masri – come Under the Rubble (1983), Children of Fire (1990), Children of Shatila (1998), Frontiers of Dreams and Fears (2001) – che hanno costruito una cronaca intima e cruda della vita palestinese sotto l’occupazione israeliana. Non ci sono eroi nel suo cinema documentaristico: i protagonisti sono persone reali, donne, bambini, madri, detenuti, sopravvissuti.
A rispondere al chi è di scena c’è il popolo che resiste contro le armi e l’oblio.

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Nei suoi film, la macchina da presa non osserva da lontano: entra nelle case, ascolta le voci, si siede accanto alle persone mentre raccontano. Masri non filma per “spiegare” la Palestina, ma per ascoltarla. Ogni volto che inquadra è un archivio di dolori e di sogni, ogni gesto quotidiano — una tazza di tè, un compito scolastico, un abbraccio furtivo — è un atto di resilienza. Per la sua poetica, la resistenza non è soltanto politica: è il semplice, ostinato desiderio di vivere. È la bambina che disegna il mare pur non avendolo mai visto, il giovane che sogna un futuro libero pur sapendo che le frontiere lo imprigionano anche nei sogni.
Per entrare ancora di più nel dettaglio, Masri porta l’attenzione su uno dei protagonisti spesso più dimenticati nelle storie di guerra e resistenza: il sesso femminile. Nelle sue storie, la donna palestinese è madre, figlia, amante, ma anche custode di una verità collettiva.
Non è solo la vittima di una guerra perpetua, ma la sua memoria vivente. Nel film Wild Flowers: Women of South Lebanon (1986), la regista racconta la vita di donne che, in mezzo alle rovine, coltivano ancora la terra, ricamano, partoriscono, educano. L’atto di cucinare o di insegnare diventa un gesto politico, una forma di sopravvivenza culturale. Per Masri, la cura è una forma di resistenza.

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La stessa idea fiorisce in uno dei suoi capolavori più recenti – 3000 Nights (2015) – il suo primo film di finzione ma forse anche il più profondamente reale.
Racconta la storia di Layal, una giovane insegnante palestinese incarcerata in Israele e costretta a partorire dietro le sbarre. Nel ventre della prigione, Layal mette al mondo un figlio — e con lui, una speranza che non può essere incatenata. La prigione, in Masri, è sempre un doppio spazio: limite e rivelazione. È il luogo dove si misura la brutalità dell’occupazione, ma anche dove si rivelano la solidarietà, la maternità, la vita che insiste. La cella diventa un ventre simbolico: lo spazio più chiuso genera la possibilità del futuro.
Nei film di Mai Masri non c’è mai un punto di vista “neutro”. La sua macchina da presa è radicata nella terra: respira la polvere di Nablus, ascolta i passi nei vicoli di Shatila, assorbe la luce delle montagne del Sud del Libano. È una camera che abita, non che osserva. Masri non cerca il sensazionalismo della guerra, ma il tempo sospeso dell’attesa: le ore lente, la quotidianità ferita ma viva. Così facendo, restituisce alla Palestina un volto umano, che spesso i media occidentali riducono a statistica o slogan. Ogni bambino, ogni madre, ogni casa che filma diventa un frammento di un'identità collettiva che resiste all’estinzione.

Eppure, il suo cinema non è mai disperato. Anche nei momenti più bui, il suo sguardo trova la luce. Come se la speranza fosse una necessità fisiologica: “filmare per non morire”, direbbe forse, o “raccontare per continuare a esistere”. La bellezza nei film di Mai Masri non è ornamento, ma forma di dignità. Le sue immagini, spesso semplici, hanno la forza della verità vissuta. Non c’è artificio: i colori sono quelli della sabbia, del fumo, della pelle; la musica è quella delle voci, dei passi, del vento. Ogni inquadratura è una preghiera laica: per chi non ha voce, per chi non ha più casa, per chi continua a credere nella possibilità di un ritorno. Eppure, non c’è mai retorica. Masri non chiede compassione, ma attenzione. Non costruisce vittime, ma testimoni. Il suo cinema è un invito a guardare davvero, a restare presenti, a non voltarsi altrove.
C’è una frase che riassume l’essenza del cinema di Mai Masri: “Ogni immagine è un atto di resistenza”, pronunciata da Henri Cartier-Bresson.
Resistere, per lei, non significa combattere con le armi, ma affermare la vita anche dentro la distruzione. È scegliere di raccontare la bellezza dove tutti vedono solo la guerra. È credere che un film possa salvare un ricordo, e che un ricordo possa cambiare uno sguardo. Nel mondo di Mai Masri, la cinepresa è un cuore che batte per tutti i cuori spezzati. Ogni fotogramma è una promessa: che la storia non finirà finché qualcuno avrà il coraggio di raccontarla. E in quel racconto, fragile e luminoso, continua a vibrare la voce di un popolo che non smette di resistere.
From the river to the sea, Palestine will be free!
Nico Zugan

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