RACCONTI DA UN'ESPOSIZIONE: NEW YORK BLUE RHAPSODY

Pubblicato il 2 agosto 2023 alle ore 11:00

Presentiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori una nuova rubrica dal titolo "RACCONTI DA UN'ESPOSIZIONE", curata dalla nuova editor di Studio Limoni, Augusta de Cesari.  In questa nuova serie vi presentiamo dei racconti brevi, scritti prendendo ispirazione da alcune delle opere d'arte più famose e note, andando al di là del concetto di storia dell'arte per costruire un'arte di storie. 

 

Edward Hopper, Nighthawks, 1942, olio su tela

Art Institute of Chicago

Courtesy Wikimedia Commons

 

Capita spesso nelle serate d’estate che un bicchiere di scotch possa risollevarti la giornata: tra le piccole onde di quel dolce mare color caramello ti senti come le vecchie signore borghesi sui lidi della Florida, senza pensieri o preoccupazioni. Tuttavia, le vacanze in Florida durano mesi, invece le serate al bancone del Molly’s nel Greenwich Village sono solo attimi fuggenti di poche ore.

Mi chiamo Joseph Hardy, Joe per il mio unico amico, il barman, e sono uno scrittore a cui piace vivere la vita quando quest’ultima gli capita tra le mani. È un modo carino per dire che sono uno spiantato e batto a macchina solo quando ho voglia e i soldi per le sigarette e il whisky non bastano. È una sera tranquilla di luglio, l’afa sale dalla laguna attorno a Manhattan in una nube soffocante. È da poco passata la mezzanotte e io sono al solito bar sul solito sgabello con Tommy.

Non fatevi ingannare dal nome, Tommy è il barman che porta avanti la baracca del Molly’s ed è il polacco più intelligente di New York. O come dicono giù a Soho, il meno scemo. È l’amico che mi raccoglie dal fondo della vita quando io arrivo al fondo della bottiglia. È un bravo ragazzo di poco sulla trentina, un uomo onesto di famiglia e a volte vorrei farmi adottare da lui e il suo clan; saranno pure morigerati e cattolici, ma sanno divertirsi questi polacchi, soprattutto quando scorrono fiumi di alcol. Probabilmente vorrei farmi adottare da lui e da sua moglie solo per avere la certezza di un pasto caldo al giorno. Voglio un bene dell’anima a Tommy e Edyta, la sua matrona, e ne voglio pure alle loro figlie, quelle gemelle pestifere di Tatjana e Ilona. Lo ripeto: sono polacchi, ma di gran cuore.

La prima sera che entrai al Molly’s era il giorno della mia laurea alla New York University, completamente solo e depresso. Per me non c’era una signora Robinson pronta a far di me un uomo, che tu sia maledetto, Dustin Hoffmann. Quella volta Tommy mi versò un bicchiere di whisky, in silenzio, e poi basta, non mi degnò di uno sguardo per tutta la serata. Come si fa con i cani randagi, mi diede modo di capire che era un amico, ma non avrebbe forzato la mano.

Da allora ho fatto del Molly’s la mia seconda casa, da bravo forestiero dell’Ohio, mi piaceva sparlare della vita da amish che ero costretto a fare poco dopo che mia madre, da vedova di guerra, mi dimenticò in una scuola cattolica per ragazzini ribelli. Lei è sparita su un treno diretto a San Francisco.

Mi lamentavo con Tommy dei preti che insegnavano il latino a colpi di bastone e Ave Maria, delle suore e delle novizie che scoprivano le gambe con le sottane alzate solo in presenza del monsignore, della fuga in autostop verso il college e la laurea solitaria. Lo travolgevo, atteggiandomi da povero incompreso lasciato solo in balia del mondo. Tommy stava in piedi dietro al bancone senza pronunciare parola, ma nei suoi occhi leggevo le note di una tenera compassione.

 

-Allora Tommy, mi versi il bicchiere della staffa? -

-Ehilà Joe! Per il bicchiere della staffa non bisogna lavorare? -

-Crepa Tommy, torna a mangiare zuppe a Cracovia. –

 

Sono quasi le due del mattino e dalla porta entra Funny Boy tutto trafelato e scruta l’ambiente attorno a sé con fare guardingo. È un personaggio tutto a sé, noi nottambuli dell’ultima ora lo chiamiamo così dalla prima volta che ha messo piede qua dentro. Nessuno di noi sa come si chiama realmente, forse Edward, Edmund o qualcosa di simile; anche lui come me è uno squattrinato che lavora quando e se lo ricorda.

Quando l’avevo conosciuto, aveva appena fallito come attore da quattro soldi in un teatrino d’avanguardia a Long Island, era entrato in lacrime, truccato da donna con una parrucca alla Joan Crawford e aveva ordinato un Martini. Io e Tommy lo guardavamo all’inizio con così tanta pena che a turno gli offrimmo i successivi quattro drink. Neanche cinque minuti dopo, la compassione si era trasformata in curiosità: sembravamo dei Cherokee che vedono per la prima volta un fucile, fascino e terrore in una sola musica.

Credo che Funny Boy sia omosessuale perché, dopo cinque anni, si mette ancora il mascara e la cipria, ma citando le sue testuali parole “Solo quando c’è la luna piena”. E credo che sia pure innamorato di me, mi guarda con quegli occhi lascivi da Marilyn Monroe mentre mi parla dell’ultimo libro che ha letto di Truman Capote e per far colpo cita dei paroloni che credo non sappia nemmeno lui cosa vogliano dire: tautologico, onnisciente, fenomenologia, empirismo.

Io, Tommy e Funny Boy: un trio di uomini e no, espressione massima della società scabra di New York.

Noi tre, al Molly’s senza parlare e intanto sappiamo tutto di ognuno.

A un certo punto la nostra intimità viene interrotta dall’ingresso di altri due bizzarri personaggi; uno è un irlandese, si capisce da quell’accento esilarante, mentre la sua accompagnatrice è una subrette che ho già visto su qualche manifesto di un paio di localacci nella suburra.

L’irlandese, Malone, è un tipo conosciuto nel quartiere per essere uno strozzino di prim’ordine, non mi stupisco che una donna come quella con cui è entrato stia con uno come lui. Per le femmine di quella razza o hai soldi o ci sai fare a letto e Malone è più probabile che abbia un bel verdone nel portafoglio.

-Senti, baby, non puoi trattarmi così dopo quello che ho fatto per te. Hey, cameriere! Portami un Threlfalls di buona annata! –

Patriottico fino all’osso e fino al fegato, costui.

-Non rompermi ed evita di dare spettacolo in pubblico, stupido! –

I due si siedono sulla coppia di sgabelli accanto al mio, la donna sta in mezzo a noi uomini e ho come l’impressione che sia stuzzicata dalla voglia di civettare un po’ con il sottoscritto.

-Senti, gioia, mi dai un Martini? Agitato, con un’oliva. -

Mentre ordina il drink a Tommy, non posso fare a meno di pensare al perché diavolo tutta questa gente di spettacolo beva solo Martini. Forse è solo per darsi un tono, ma chiedere un Martini in un bar del Village quando sei una ballerina senza veli fa abbastanza pena.

La subrette nota il mio pacchetto di sigarette e con fare seducente mi chiede: -Hey, bello, mi dai una sigaretta? -

Se c’è una cosa che odio, anzi due, è che mi si chiami bello o tesoro e soprattutto non sopporto gli scrocconi. Però non voglio avere storie e le allungo il pacchetto di Marlboro.

-Mi daresti anche un fiammifero, tesoruccio? –

E le passo il fiammifero.

Mentre fuma, la donna continua a guardarmi con malizia, mi scruta con quegli occhioni da lince in calore e mi dà un certo fastidio: chi è questa che dal nulla si permette di distruggere la quotidianità del nostro rito di nottambuli? Malone cerca di farsi ascoltare dalla sua dama e continua a piagnucolare come un vitellino che vede mamma vacca caricata sul carro per il mattatoio. Lei non gli presta alcuna attenzione, sembra che abbia innalzato un muro di vetro tra di loro e alla fine capisce che ormai è concentrata su un altro.

-Io ti mollo, baby. Non mi ascolti e pensi sempre a saltare da un uomo all’altro e io faccio la figura della pecora. Stammi bene e goditi il tuo nuovo toy boy. –

Lascia una manciata di nichelini sul bancone per Tommy e se ne esce dal Molly’s senza nemmeno salutare. Di sguincio, lo vedo fermarsi davanti al bar cercando di chiamare la sua baby con lo sguardo: urla con gli occhi, ma lei è un pezzo di piombo in fondo al mare.

Se ne va, con le ultime speranze distrutte, inghiottito dal buio della notte. Ora lei è libera di fare la svenevole come vuole e ammetto che ha una silhouette piuttosto sexy, strizzata nel vestito di raso rosso con una scollatura talmente profonda che non lascia spazio ad alcun tipo di immaginazione. Ha dei capelli ramati pettinati come una vedette di Hollywood, che si abbinano a meraviglia con quelle labbra carnose che stringono la mia sigaretta. Quella morsa mi fa sentire un senso di vertigini.

 

-Qual è il tuo nome? – le chiedo impulsivamente, senza pensare.

-Il mio nome di battesimo lo sa solo mia madre, ma tu puoi chiamarmi baby, amore. – mi risponde ammiccando e ridendo con malizia.

-Beh, Baby, io avrei paura di uno come lui e fossi in te non lo fare incazzare. –

-E perché mai? –

-Scherzi, vero? Ha così tanti contatti con la mala, che sembra Rockefeller con le miniere! Potrebbe vendicarsi in modo poco carino. –

-Ne hai di immaginazione! Ethan non è così losco e l’unica mitraglietta che usa è quella che tiene in mezzo alle gambe! –

-Ah, quindi non te lo sei preso per i soldi? –

-Oh, suvvia! Queste non sono cose educate da dire a una signora! Può sembrare strano, ma con Ethan ci stavo per amore. –

-Mi scuso per aver pensato male. –

-Scuse accettate, tesoro. Purtroppo, capita spesso che la gente pensi male quando mi vede.

-Però, se lo amavi, perché lo hai tradito? -

-Non l’ho mai tradito, ho inventato tutto. Non mi voleva più bene come prima, ultimamente tornava a casa e non facevamo più nemmeno l’amore, anche perché lui si divertiva già senza di me e io come una povera scema stavo sveglia tutta la notte ad aspettarlo. -

 

Ero stupito da quelle parole, davvero l’apparenza inganna.

-E quindi hai rotto con lui per non sentirti più presa in giro? –

-Esattamente. Sai come si dice, no? “A mali estremi, estremi rimedi” e salute a me per la mia nuova vita da donna libera! – esclama lei ridendo, mentre tiene alto il bicchiere di Martini.

Tuttavia, vedo un pesante velo di malinconia nei suoi occhi che piano piano scende su quegli zigomi aguzzi, trascinandosi dietro un po’ di rimmel: sembra un gabbiano ferito che si lascia ingoiare dal petrolio, mentre grida all’orizzonte e al cielo la sua pena d’amore.

-Salute a te, baby. –

E brindiamo insieme alla sua nuova vita. Sarebbe un’ottima matricola per il nostro circolo di nottambuli del Molly’s, ma non è come noi: è giovane e bella e ha voglia di vivere, di cambiare.

Noi, invece, siamo soltanto tre ombre nella notte che inseguono vecchi fantasmi del passato e che ogni sera stanno sempre seduti allo stesso dannato bancone. Baby cambia bancone ogni sera.

Pensando a questo, pago Tommy, prendo il cappello e mi alzo per ritornare a casa. Prima di uscire, saluto quella bizzarra ragazza: -Stammi bene, baby, grazie. –

Lei alza il bicchiere verso di me come per dire “non c’è di che”.

Esco dal Molly’s e mi accendo una sigaretta, mentre guardo con occhi nuovi il paesaggio che mi si apre davanti. Quella strada del Greenwich Village, da me sempre considerata come una casa bellissima, è solo una striscia di asfalto su cui si affacciano condomini fatiscenti, anonimi e tutti uguali.

Con le mani in tasca e una Marlboro in bocca, mi incammino verso casa passando per stradine e vicoli sconosciuti.

È quasi l’alba, le prime luci del giorno su Manhattan scacciano la regina della notte che corre verso l’Ovest, con il suo mantello di oscurità. Poche stelle continuano a brillare timide sopra la mia testa, da un appartamento si stanno consumando gli ultimi attimi di una festa e la voce di Buddy Holly echeggia nel silenzio dell’ora blu.

Con questi istanti scolpiti nella memoria, cerco quel vento di cambiamento che Baby ha anticipato con la sua brezza di malizia e giovinezza.

 

FINE

 

Augusta de Cesari

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