Presentiamo una rubrica indipendente con l'obiettivo di dare spazio a giovani artisti e artiste della scena contemporanea fuori dagli spazi della storicizzazione. Il riferimento al romanzo di Dostoevskij serve a riportare alla luce la coscienza dell'esistenza di un mondo underground, fatto di mormorii e percezioni che passano in sordina nel contesto mainstream della società e anche nel panorama artistico.
Il giovane artista che presentiamo oggi è Giorgio Lorefice, laureando in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. Lo andiamo a trovare nello spazio dove il suo linguaggio si sprigiona e si esprime nella sua forma più istintuale, lo Studio Lavanderia, spazio condiviso da tanti altri giovani artisti provenienti dall'ambiente di Brera. Lo incontriamo in un caldo pomeriggio di luglio, nella periferia nord di Milano e lasciamo che Giorgio Lorefice si racconti a noi.
Allora Giorgio, tu lavori in questo studio condiviso da poco, invece da quanto sei legato alla realtà dell'Accademia di Brera?
Da quasi un anno usufruisco degli spazi di Lavanderia, mentre a Brera questo sarebbe il quarto anno, teoricamente. In realtà mi sono preso l'anno fuoricorso per scrivere la tesi, ma da Settembre inizio la magistrale. Sarebbe il mio quinto anno da fuori sede a Milano.
Però in questo periodo hai avuto tempo di apprendere di più il significato della tua vena artistica, della tua poetica e di trovare un linguaggio che sia effettivamente tuo, fuori dagli standard accademici di un'eventuale formazione al liceo, se mai hai frequentato l'artistico.
Sì, ho frequentato grafica all'artistico. Ma diciamo che all'Accademia è come se non avessi creato la mia vena creatrice, bensì scoperta. Alla fine analizzando e guardando indietro a quello che ho fatto, anche cose molto distanti tra loro, ho visto che c'era un qualcosa di comun denominatore, un senso di una traccia che c'è sempre stata ma si è rivelata perché ho fatto dell'arte il medium cardine per rivelare e rivelarmi quello che ho già dentro. Non la vedo nei termini di una creazione pura, dal nulla
Non creazione, ma scoperta. è una definizione interessante, perché tanti altri artisti che abbiamo già intervistato parlano proprio dell'essersi creati o addirittura ricreati, alle volte, nel loro linguaggio. Invece, l'idea di riscoprirsi ha tutto un altro significato.
Guarda, direi più che riscoprirsi è semplicemente un atto di autocoscienza, il prendere atto di certe cose e del perché si sono sempre fatti certi gesti. Adesso, allo stesso modo, faccio delle cose senza capire, ma con la certezza che, prima o poi, ne apprenderò il senso più avanti. Tuttavia, la questione della creazione per me è importante, mi sento comunque un creatore perché c'è questo elemento in quello che faccio.
Giorgio Lorefice, San Sebastiano, 2023. Olio su tavola, acqua e farina, camule della farina, tempo, 25x22cm
Courtesy Giorgio Lorefice
Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1475 circa. Tempera a colla su tela, 257 x 142 cm
Musée du Louvre, Parigi
A proposito di creazione e del fatto che hai appena detto che ti vedi come un creatore, tutto ciò va molto in contrasto con alcuni topoi che tornano nel tuo lavoro, come l'idea della caducità, della limitatezza nella tua reinterpretazione di San Sebastiano.
Allora, diciamo che sotto quel punto di vista la creazione non è da intendere solamente nel suo senso lato, ma è in qualche modo legata alla sua antitesi della distruzione, perché sono strette in un eterno ciclo per cui dopo una viene l'altra, sempre. Quindi San Sebastiano lo collego all'idea della creazione di una situazione, non di un oggetto: la situazione che viene creata per esistere ha bisogno di morire e rinascere, come si vede nel lavoro. Io da creatore dispongo determinati elementi nell'oggetto, che poi prendono vita da soli, come se io dessi le disposizioni di regia per l'allestimento di una scena, ma dove l'azione avviene in autonomia. Nel caso specifico di San Sebastiano, io ho inserito il palo di legno, i vermi vivi e la figurina del santo fatta di pane; nelle tre volte che l'ho fatto è sempre cambiato. La prima volta i vermi sono morti per il caldo, la seconda avevo messo male il palo e il santo che è stato divorato subito dai vermi e adesso sono passati sette mesi, ma il quadro continua a essere lì. Sono situazioni dove la creazione è anche casualità, contingenza, ovvero mettere le condizioni affinché un qualcosa accada da sé.
Da dove arriva questa fascinazione per la figura di San Sebastiano?
Da un lato è stata una figura pretestuale, come l'elemento migliore per un certo tipo di discorso come quello detto in precedenza, riguardo all'eterno ritorno, alla distruzione delle speranze. Nei quadri con San Sebastiano come soggetto, è molto vero l'elemento della speranza e sono molto affascinato dal ritratto che ne ha fatto Andrea Mantegna; tanti artisti si sono confrontati con questa figura agiografica che dentro di sé racchiude tutta la forza della speranza, nel momento che viene messo davanti alla morte. Per San Sebastiano, morire è un atto felice nella consapevolezza che ci sarà una salvezza spirituale. Quindi, nel mio caso è come una sorta di speranza interrotta, come a dire che la realtà dei fatti è questa.
Anche per questo dentro la cornice hai messo i vermi e non altri esserini parassitari, perché nell'immaginario comune i vermi sono più legati all'idea del consumo e alla decomposizione del corpo morto?
Sì, ma anche perché banalmente sono le larve di camole della farina. C'è dietro una sorta di tautologia, visto che nascono strettamente legate al pane, quindi da un lato c'è la questione che dite anche voi, ma dall'altra parte c'è anche questa questione tautologica, come se il San Sebastiano si mangiasse da solo. Questi sono vermi che si nutrono principalmente di farinacei, con altri parassiti si perderebbe il senso che vi ho appena spiegato; il verme è anche un simbolo legato al viscido e sì, anche alla putrefazione, non c'è più speranza.
Giorgio Lorefice, Io sul limbo, 2023. Stampa su carta, 195x78cm
Courtesy Giorgio Lorefice
Perché invece non hai lasciato che il pane ammuffisse da solo?
Principalmente perché il pane ci impiega poco ad asciugarsi, a meno che non sia in un ambiente molto umido, altrimenti non succederebbe nulla. L'ultima volta, la muffa si è formata per caso a causa del freddo, ma tendenzialmente no e poeticamente non è quello che mi interessa. Con la muffa è come se fosse un corpo già morto e continua a morire, manca l'azione diretta. Invece, coi vermi il corpo da vivo diventa morto, si consuma fino a scomparire per sempre.
Quindi è come un memento mori, un guardarsi allo specchio?
Sì, ricordati che devi morire, memento mori. Prendine atto, semplicemente.
Invece, le installazioni che hai fatto con il tuo corpo stampato in scala 1:1 hanno un senso affine o incarnano un'altra idea, anche diametralmente opposta?
L'idea per me è molto simile sul piano del trompe-l'œil, di questa commistione tra realtà e pittura. Nella mia visione, la pittura dialoga con il mondo esterno in maniera attiva, non è solo un quadro che viene appeso alla parete per essere guardato e ricevere gli sguardi passivamente, come se il quadro continuasse la parete. Nel caso del mio lavoro, il quadro continua quello che sta sotto, cioè il mio corpo, anche se c'è più la volontà di manifestare una condizione di non speranza, non tanto di attesa quanto di rassegnazione. In questo lavoro io mi identifico con la parte corporea, che poi ho allestito con un mia stampa in scala ma solo come stunt, mentre nel quadro c'è racchiusa la mia parte mentale che sente la pesantezza del corpo fisico e la vuole schiacciare. In un certo senso, la pittura diventa un portale sulla realtà e su un'altra dimensione, non è più solo pittura e rappresentazione fine a se stessa.
S. F. C.
Giorgio Lorefice, San Sebastiano, 2023. Olio su tavola, acqua e farina, camule della farina, tempo, 25x22cm
Courtesy Giorgio Lorefice
Guido Reni, San Sebastiano. Olio su tela, 127 x 92 cm
Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, Genova
Giorgio Lorefice, Io che schiaccia me, 2023. Olio su tavola, stampa su carta, 180x87cm
Courtesy Giorgio Lorefice
Giorgio Lorefice, Io che schiaccia me, 2023. Olio su tavola, stampa su carta, 180x87cm
Courtesy Giorgio Lorefice
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