Presentiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori una nuova rubrica dal titolo "RACCONTI DA UN'ESPOSIZIONE", curata dalla nuova editor di Studio Limoni, Augusta de Cesari. In questa nuova serie vi presentiamo dei racconti brevi, scritti prendendo ispirazione da alcune delle opere d'arte più famose e note, andando al di là del concetto di storia dell'arte per costruire un'arte di storie.
Quella mattina il paesaggio era velato di una strana coltre di tristezza, ogni cosa era intrisa di melanconia. Era già l’alba e il sole aveva superato la linea dell’orizzonte, ma era ricoperto da plumbee nubi. La notte prima la tempesta si era abbattuta sulla terraferma come se il vento dovesse spazzare via per sempre il piccolo paesino sulla costa fino all’ultimo granello di sabbia, fino all’ultima conchiglia.
Quella notte, la pioggia ingrossava le potenti onde del mare che si ergevano alte e maestose, che arrivavano quasi a bussare alle porte del paradiso. La luna era stata inghiottita da quelle nubi cariche di folgori e tuoni. Questo tragico ritornello di paura si ripeté fino ai primi sprazzi di luce del sole, dopo di che cadde il silenzio. La tramontana aveva smesso di soffiare adirata, con il suo fischio inquietante che trascinava cantiche grida, preghiere e bestemmie di marinai ormai dormienti nei più profondi fondali del mare.
Ora sembrava solo l’eco di un sogno lontano, di un incubo passato. Il paesino di pescatori temeva di trovare le barche disperse o con gli scafi sventrati, ma stranamente sembrava che non si fosse scatenata la tremenda ira di Poseidone. Tutto era tornato intatto. Solo una cosa stonava nel paesaggio: un naufrago. Sulla striscia di spiaggia che legava il paesino alla chiesa c’era un uomo. Della sua barchetta, un guscio di noce distrutto, non era rimasto nulla che un remo e a mala pena gli erano rimasti addosso i vestiti.
I bambini del paese erano usciti a giocare ignari di quello strano incontro che avrebbero esperito da lì a poco. Si fermarono a una distanza di sicurezza pari a cinque piedi e stavano tutti con il fiato sospeso, guardando quello straniero che dormiva sul letto di sabbia: aspettavano un segno, un qualsiasi indizio per capire chi fosse lo strano uomo e che cosa ci facesse lì.
Il marinaio non dava impressione di muoversi da un momento all’altro, allora le creature si avvicinarono cautamente e all’improvviso, il naufrago tossì sputando alghe e acqua di mare che gli erano rimaste in gola. I bambini si ritrassero di poco, rimanendo fissi con lo sguardo sull’uomo e fu allora che i loro occhi si incrociarono.
Il naufrago era piuttosto anziano; aveva un corpo esile, le rughe tutt’intorno al volto sembravano squame di salmone argentato e una lunga barba bianca incorniciava quel viso spaventato, su cui brillavano due occhi scavati e profondi come la gola di una grotta. Quelle iridi erano azzurrissime, dentro c'era l’acqua più pura della baia incontaminata nei mari dell’Oceania o delle rive amene della Polinesia Francese.
Gli occhi del marinaio naufragato su quella riva così anonima avevano gelato i bambini curiosi. I piccoli erano ancora raccolti tutti intorno al corpo dell’uomo, ma l’intensità del suo sguardo aveva accorciato le distanze a un respiro. Quegli occhi, quei cerulei occhi erano il riflesso della paura di chi, dopo tanti anni, non ha saputo domare il mare ed è stato travolto da esso, in balia della sua furia.
Allo stesso tempo palesavano la gioia di chi, nonostante tutto, ha raggiunto le braccia gentili di un litorale sabbioso con la speranza di esalare l’ultimo respiro davanti a un essere umano. Un modo per dire: io esisto, io sono. Quell’uomo sapeva che la vita gli stava scivolando dalle mani come un’anguilla impazzita e fu allora che dalla sua vecchia bocca uscirono solo due parole: -Jonathan Moore.-
E poi, si addormentò per sempre con un timido sorrido disegnato sul suo viso stravolto dalla fatica di morire in una terra senza nome. I bambini corsero al paese ad avvisare i genitori e il consiglio degli anziani del villaggio, gli raccontarono di quell’incontro fantastico con un vero marinaio, forse un pirata e nelle loro voci c’era l’entusiasmo tipico dei bambini quando scoprono un tesoro tutto loro che nessun adulto potrà mai capire. I genitori, invece, erano spaventati al pensiero dell’arrivo di un pirata nel loro piccolo insignificante villaggio di pescatori, ma allo stesso tempo sembravano sollevati al pensiero di aver scampato una minaccia quando sentirono i bambini che raccontavano di uno strano marinaio che dormiva sulla sabbia calda.
Ingenue creature, credevano di aver trovato un nuovo amico con cui giocare e da cui farsi raccontare i grandi misteri del mare: gli avrebbero chiesto di narrare loro cosa si nasconde dietro l’orizzonte, di parlare degli incontri con le sirene e i mostri degli abissi, degli scontri tra velieri e chiatte di pirati, dei tesori nascosti su isole che non sono segnate su nessuna mappa. Non capivano che il sonno del marinaio era un viaggio eterno verso un nuovo mare ancora tutto da esplorare.
Il cadavere dell’uomo venne avvolto in un sacco frugale di juta e gettato in acqua al largo della baia, pregando per la sua povera anima di lupo di mare e sperando che getti l’ancora nell’al di là. Nel piccolo cimitero dietro la chiesa, la gente del posto piantò una croce alla bell’e meglio con attaccato un pezzo di pergamena con un filo di spago. Il cartiglio aveva segnata una scritta che recitava più o meno così: “In memoria di Jonathan Moor, marinaio e naufrago. Riposi in pace”.
Molti mesi più tardi, dopo che i salmoni ritornarono per due volte nella baia, si seppe di quel marinaio e la sua storia; fu l’unico del suo equipaggio a sopravvivere fino a riva durante la tempesta. Era un mozzo ingaggiato su un brigantino mercantile della flotta reale inglese, ma nessuno sapeva il suo nome: per tutti era conosciuto come il vecchio del veliero nero.
FINE
Augusta de Cesari
Ivan Ayvazovsky, Tempest by Sounion, 1856, olio su tela. National Gallery of Athens
Courtesy Wikimedia Commons
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